Come molti miei coetanei nati negli anni’50, ho vissuto gli ultimi anni della civiltà contadina a Castel Madama, ed è stata per me un’occasione di conoscenza al tempo stesso reale e fantastica.
Il ricordo di quando accompagnavo mia madre e mia nonna a lavare i panni al fontanile di Cavasòrci, o di quando guardavo mio nonno Caspirucciu lavorare con fatica la terra co’ j’abbedènde o tagliare l’erba con la fàçìa per poi confezionare le balle di fieno che sarebbero servite a sfamare la somàra durante l’inverno, ancora oggi mi trasmettono rumori, odori e sensazioni capaci di tenere vivo il ricordo sia delle persone scomparse, sia dei luoghi spesso mutati nel tempo.
A queste esperienze si accompagnavano le sere davanti al camino d’inverno o l’estate seduti fuori al portone con i vicini di casa, ad ascoltare storie spesso fantastiche, altre volte crude e drammatiche.
Questi ricordi nel tempo hanno dato vita alla mia passione per la Cultura della Civiltà Contadina, della quale tutti siamo eredi e molti siamo stati testimoni della sua scomparsa quando, progressivamente, è stata sostituita dalla Cultura del progresso che ci prospettava una vita e un futuro migliore.
Questa rubrica vuole essere il luogo dove ripercorrere e rileggere la nostra storia legata alla tradizione contadina, un viaggio in un mondo che ci appartiene, un mondo in cui erano racchiusi i miti, i riti, le credenze, le tradizioni e i culti frutto delle esperienze di una comunità acquisite nel tempo; tempo che sembra lontanissimo dalla attuale realtà quotidiana.
La nostra rilettura cercherà di non avere un carattere nostalgico o folkloristico ma, cercheremo di ricostruire e tramandare alle nuove generazioni gli aspetti genuini delle nostre genti, un guardare al passato per ricostruire un’identità umana in crisi, per riprenderci un po’ di autenticità nel labirinto odierno di bombardamenti mediatici, modelli mistificanti, personaggi virtuali.
L’età contemporanea ha prodotto quella grande conquista che è l’interculturalità, l’apertura all’altro che permette alle varie civiltà di confrontarsi, scoprendosi e arricchendosi a vicenda.
Ogni emancipazione però può alimentare forme di sradicamento; per questo riteniamo importante avere un atteggiamento interculturale orizzontale, cioè verso altre culture, altre rappresentazioni, orientato dal nostro passato, perché, dopotutto, siamo il risultato delle passioni, dell’impegno, ma anche degli errori di chi ci ha preceduto.
Per fare questo abbiamo bisogno del contributo di tanti di voi, che possono partecipare al nostro viaggio inviando a questa rubrica storie, racconti, avvenimenti, fotografie, disegni, testimonianze, canzoni, proverbi, modi di dire, giochi, conte, filastrocche, e chi più ne ha più ne metta, in modo che il nostro viaggio, sia il più completo e condiviso possibile.
La storia dell'olivo inizia milioni e milioni di anni fa in Asia Minore. L'olivo, infatti, è una pianta che ama i territori dove gli inverni non sono troppo freddi, dove non cade troppa pioggia e dove il sole brilla per gran parte dell'anno. E l'Asia Minore ha proprio queste caratteristiche.
8000 anni fa l'ulivo veniva già coltivato in Medio Oriente, gli uomini conoscevano ed apprezzavano l'olio che veniva ottenuto schiacciando le olive tra due grandi pietre e di quel periodo sono molti i resti fossili, fra i quali foglie e noccioli. Le prime coltivazioni si ebbero molto probabilmente in Siria o a Creta. I Fenici in seguito diffusero questa coltivazione su tutte le coste del Mediterraneo, dell'Africa e del Sud Europa. Da allora, generazioni e generazioni di contadini non hanno più smesso di coltivare con cura l'olivo e di seguirne attentamente la crescita fin dai suoi primi anni di vita. Fin dall'inizio l'ulivo e i suoi frutti sono stati presenti nella storia degli uomini sia nei riti sacri che nella vita quotidiana, l'olio infatti venne utilizzato non solo per arricchire gli alimenti ma anche nella cura del corpo e nella cosmetica.
Gli antichi Romani classificavano l'olio di oliva in cinque qualità: "oleum ex albis ulivis“, proveniente dalla spremitura delle olive verdi; "oleum viride“, proveniente da olive raccolte a uno stadio piu' avanzato di maturazione; "oleum maturum“, proveniente da olive mature; "oleum caducum“, proveniente da olive cadute a terra e "oleum cibarium“, proveniente da olive quasi passite che era destinato all'alimentazione degli schiavi.
I numerosi utensili per la raccolta e la spremitura delle olive, rinvenuti dagli archeologi in vari scavi nell'area mediterranea, nonché diversi passaggi della Bibbia e del Corano dimostrano l'importanza
storica di questo frutto dell'ulivo e del lavoro degli uomini. L’albero di ulivo e l'olio ricavato dai suoi frutti hanno accompagnato la storia dell'umanità.
Ancora nel terzo millennio, l'olio di oliva costituisce un prodotto carico di misticismo e soprattutto un componente fondamentale della ormai famosa dieta mediterranea, di cui molti esperti attestano gli aspetti benefici per la salute.
Sull'olivo sono state tramandate diverse leggende; quella più suggestiva risale all'epoca della fondazione della città di Atene e vede protagonisti Atena, dea della sapienza, e Poseidone, dio del mare, i quali combatterono per il possesso dell'Attica, una regione nell'est della Grecia.
Zeus, il re degli dei, intervenendo nella disputa, stabilì che l'Attica sarebbe stata assegnata a chi avesse presentato il dono più utile per il genere umano. Poseidone colpì la roccia con il suo tridente e ne fece sgorgare una fonte di acqua marina e un cavallo veloce come il vento, essenza stessa della bellezza in movimento. Atena creò e piantò un nuovo albero: l'olivo, che rappresentò la prima fonte di grassi vegetali a disposizione del genere umano. Così Atena conquistò la vittoria. Divenne patrona della città cui diede il nome, Atene appunto, e a lei venne consacrata la pianta. Nella terra degli dei l'olivo divenne così importante che in occasione dei giochi olimpici il primo premio era una corona di olivo che cingeva il capo dei vincitori. L'olio, versatile in mille utilizzazioni, assunse anche rilevanti significati spirituali, divenendo segno di purezza e dignità: l'unzione del sepolcro, ad esempio, costituiva un elemento importante nel culto religioso e funerario.
Anche quest’anno, così come avviene da molti secoli, nel periodo novembre gennaio, nel nostro paese si ripete la raccolta dell’ulivo.
Si comincia nelle cantine nel ripulire le vittine, utilizzando acqua calda mischiata con la semola o con la crusca. Si preparano poi i ballùni, j’ancini, le scali, i manicùti e le saccocce.
Nel passato tutta l’attrezzatura veniva caricata sugli asini, sui muli o sui carretti e veniva trasportata negli oliveti per cominciare la raccolta.
Giunti all’oliveto senza perdere tempo, venivano spasi i ballùni sotto le piante di olivo, qualcuno accendeva un fuoco per scaldarsi un po’ nelle rigide mattinate invernali. Le donne iniziavano a raccogliere da terra le olive cadute per il vento o per la maturazione mettendosele nelle parannanz o utilizzando i manicùti, gli uomini appoggiavano le scale alle piante e iniziavano a raccogliere le olive stringendo la frasca de iva tra le mani e, facendo scorrere le dita dalla base all’estremità della frasca facevano cadere le vaca de iva sòpe ai ballùni. Dove non si arrivava con le scale si utilizzavano lunghe canne per battere le frasche e far cadere le olive.
Bisognava stare attenti a non rompere i cicci per non danneggiare la pianta, altrimenti l’anno futuro avrebbe fruttato di meno. Esaurita la raccolta di una pianta, se restregneanu i ballùni co’ la iva e si svuotavano nelle saccocce o nei biunzi, recipienti fatti di doghe di legno tenute strette da cerchiature di legno o di metallo. Poi, si passava ad un’altra pianta, poi ad un’altra e un’altra ancora fino a che veniva l’ora de pranzà. Ricordo le raccolte della mia infanzia a cui partecipavo insieme a tutta la famiglia e alle famiglie dei miei cugini, dove il pasto dei miei nonni consisteva quasi sempre in una pizza di granturco da riempire con erbe (broccoletti e/o cicoria) ripassate, zuppe di fave e cipolle e pane raffermo, rare volte qualche salsiccia alla brace, qualche mela, un po’ di nocchie e noci e non mancava mai il vino rosso che dava forza e riscaldava.
Poi si ricominciava. Durante la giornata la fatica in alcuni momenti era alleviata da qualcuno che ogni tanto intonava qualche stornello, oppure raccontava storie passate, proverbi o pettegolezzi paesani, in altri momenti si lavorava in un silenzio rotto solo dal gracchiare delle cornacchie, dai cinguettii dei cillitti o dal raglio della somara. Alcune volte si faceva un botta e risposta con altri raccoglitori degli oliveti vicini e così si andava avanti fino a che non faceva scuro.
Di seguito alcuni esempi di stornelli e proverbi popolari sull’olivo, della tradizione orale castellana:
A Suaventru ce sta ‘na pianta ‘e iva |
La palìma benedetta |
Prima che facea notte, gli uomini repuseanu le scali, caricavano i biunzi pieni di olive legandoli au ‘mmastu della somara, le donne ripiegavano i ballùni e restregneanu i manicùti e j’ancini e tornavamo a Casteju a piedi o più raramente con qualche mezzo motorizzato. C’erano giorni, durante la raccolta che durava anche alcune settimane, che veniva a piovere; allora si stava tutti dentro la baracca e anche al coperto, c’era sempre qualcosa da fare: se pùlichea la iva, separandola dalle foglie, dal fango o dai sassi e se recapea la iva da fa’ seccà sopra au camminu, nònnemo refacea ca’ pizzùcu pe’ lle scali, che dovevano essere sempre sicure per evitare brusche cadute, nònnema recuceanu i bùci ai ballùni e alle saccocce; appena spiovea subito si ricominciava a raccogliere, perché non bisognava mai perdere tempo.
La sera, dopo aver scaricato l’olivo alla cantina, si continuava a pùlica’ la iva, mettendola poi nei sacchi pronta per essere portata al mulino.
Questa era la raccolta per chi possedeva un piccolo oliveto.
C’era poi un’altra raccolta: quella dei proprietari che possedevano oliveti molto grandi sia a Castel Madama e sia nella vicina Tivoli che, non potendo far fronte da soli a tutto il possibile raccolto avevano bisogno di “opere”, ovvero di persone che facevano la raccolta “a mezzu” (al cinquantaper cento della resa), oppure a giornata.
Nella maggior parte dei casi “ le opere” erano giovani donne ( a Tivoli venivano chiamate le ghiogghiare), che con il ricavato del lavoro, potevano farsi la dote o aiutare la propria famiglia. Il loro era un lavoro duro, sempre sotto l’occhio di un “caporale” che controllava la resa del loro lavoro e che evitava che perdessero tempo in chiacchiere.
Nei primi anni del ‘900 la paga di una giornata di lavoro di una donna valeva un litro d’olio mentre quella di un uomo due o tre litri. Spesso in queste giornate di lavoro le donne conoscevano uomini di altri paesi e a volte accadeva che incontravano l’uomo della propria vita trovando così la propria sistemazione familiare. Anche in queste raccolte il canto alleviava la fatica e il trascorrere del tempo e gli stornelli a dispetto e quelli a contenuto amoroso facevano da cornice ai corteggiamenti tra uomini e donne che spesso terminavano con la fine della raccolta e il rientro ai propri paesi. Molti di questi stornelli, venivano scambiati e importati nelle comunità di provenienza e entrando a far parte, con piccole variazioni, delle tradizioni orali locali come gli esempi riportati in precedenza.
Quando la raccolta era finita e l’olivo ripulito era stato insaccato o rimesso nei biunzi, veniva trasportato al frantoio per la macinatura. Il trasporto veniva fatto con gli animali da soma o con qualche barbozza. A Castel Madama, c’erano vari mulini tradizionali, alcuni rimasti attivi fino agli anni ’60, e costituivano ambienti molto caratteristici animati da un via vai di operai (i facioji) che assolvevano alle varie fasi della macinatura all’interno di un grande stanzone pieno dei vapori, degli odori dell’olio, del fumo del camino o della stufa e delle voci che coordinavano le fasi del lavoro e che si rincorrevano in tutto l’ambiente. Il produttore che arrivava al mulino scaricava in un angolo dello stanzone il suo carico di olivo e aspettava il proprio turno. Nell’immagine sottostante ritroviamo riprodotta la scena di un vecchio frantoio che riassume tutte le fasi del lavoro legate alla produzione dell’olio.
“La scena dello Stradano è inquadrata dal frantoio dove arde la fiamma nel camino, mentre nell’aperta campagna fuori si svolgono l’abbacchiatura delle olive e la raccolta nei panieri. All’interno le olive sono pressate con la mola e spremute al torchio, dopo di che l’olio è filtrato, raccolto in orci e infine, travasato in botticelle, avviato alla vendita a dorso d’asino. L’enfasi posta dall’artista sui meccanismi e l’accurata descrizione degli strumenti e degli oggetti non impediscono che traspaia il senso gravoso della fatica degli uomini e degli animali.” (Olivo: tesoro del Mediterraneo - Zeffiro Ciuffoletti Fratelli Alinari spa, 2004).
Durante il processo di trasformazione dall’olivo all’olio, il padrone dell’olivo seguiva con grande attenzione tutti i passaggi dell’operazione, scommettendo con gli altri produttori su quanto avrebbe fruttato e sulla bontà del proprio olio. All’interno del frantoio c’era spazio anche per le panche e un tavolo per l’attesa del proprio turno, dove veniva consumata la bruschetta abbrustolita sulla brace del camino,condita con l’aglio e con l’olio nuovo e intermezzata da abbondanti bicchieri di vino.
Per secoli la raccolta e la macinatura dell’olivo hanno mantenuto sostanzialmente le stesse tecniche di lavorazione tramandateci dai greci e dai romani, fino all’arrivo e alla diffusione nella metà del secolo scorso, dei motori, della corrente elettrica e della plastica. Da allora sono cominciate a cambiare le modalità di trasporto: prima con gli animali da soma e i carretti, poi con le apette, gli omai, i trattori e i camion, oggi anche con i pick-up e i suv.
La raccolta manuale è stata sostituita prima con le manicciole, piccoli rastrelli di plastica (fig. 1) e da altri tipi di “pinze” per staccare le olive dai rami, da qualche anno si sono diffusi gli abbacchiatori elettrici o pneumatici (fig. 2) che dotati di lunghe aste telescopiche in fibra di carbonio hanno reso inutili anche le scale ed hanno sensibilmente velocizzato la raccolta. Nei grandi oliveti vengono utilizzate anche macchine scuotitrici/ raccoglitrici (fig.3) che agganciando il tronco scuotono l’albero e raccolgono direttamente l’olivo senza che cada a terra. I vecchi pesanti ballùni in fibra di juta o di ortica, sono oggi sostituiti da pratici teli in fibra sintetica antispina e antistrappo.
Le saccocce sempre di juta o di ortica sono state sostituite con le più pratiche, leggere e colorate cassette di plastica.
Agli stornelli cantati a distesa, si è sostituito il rumore dei motorini elettrici dei moderni abbacchiatori, che rende difficoltoso anche comunicare con la voce soprattutto con chi, per non sentire il rumore, fa uso di cuffiette collegate al proprio lettore mp3 o al suo I-pod.
Insomma, molto è cambiato a favore di una migliore e veloce raccolta, quello che in parte si è perso è un contatto reale con la natura e l’ambiente dell’oliveto, con i suoi rumori e le sue voci, ed anche, conseguenza dell’equipaggiamento tecnologico di cui tutti ormai dispongono, quell’aspetto di mutua assistenza tra le famiglie allargate o con i vicini di oliveto.
I frantoi soprattutto sono molto cambiati. Sono quasi scomparsi del tutto i frantoi che macinavano con la molazza fatta ruotare con la forza di cavalli o di buoi o con le braccia dei facioji, sostituiti prima dal motore elettrico poi, definitivamente in molti casi, da grandi impianti moderni. In questi impianti l’olivo una volta versato, sparisce all’interno di meccanismi che prima lavano l’olivo, poi lo trasportano all’interno di casse metalliche dove attraverso frangitori a martello e bracci rotanti ad alta velocità riducono le olive in pasta e attraverso sistemi di centrifuga separano l’olio dall’acqua e dalla sansa. Tutto è gestito da pochi operai che ,anche con sistemi computerizzati, controllano le fasi della lavorazione, la temperatura, la pressione ecc., tutto è più asettico e provoca al primo impatto una sorta di diffidenza e spaesamento, ma rimane immutata l’emozione nel vedere il flusso verde smeraldo dell’olio che inizia a fluire e a riempire i sensi di luci e di odori.
Immutato è anche lo scommettere sulla resa e confrontare con gli altri la quantità e la bontà dell’olio.
Immutato infine, rimane il piacere del primo assaggio e il gusto di assaporare l’aroma intenso di questo prodotto, sopra una bella fetta di pane abbrustolito condita con un po’ di sale e una strofinata d’aglio, che continua a conservare inalterato il suo carico di sacralità e il suo sapore frutto di secoli e di passione.
Dicembre 2010
Nella tradizione popolare la filastrocca di solito è un po' pazzerella: può essere lunga o breve; svilupparsi secondo un filo logico oppure secondo pure assonanze, rime e cadenze; avere un andamento delicato che la avvicina a una ninna nanna oppure un andamento ritmato, quasi come una piccola marcia.
Come la ninna nanna, anche la filastrocca proviene dalla cultura contadina la cui impronta compare nelle espressioni, nelle situazioni e negli argomenti. Essendo di origine popolare, ogni filastrocca ha diverse varianti legate alle regioni in cui si è diffusa e si può recitare oppure cantare seguendo una semplice melodia.
La filastrocca delle Zizziripénne, che riportiamo di seguito, è parte della tradizione orale di Castel Madama e, anche di questa filastrocca, esistono molte varianti regionali, alcune delle quali le potete leggere di seguito, a dimostrazione di come la cultura popolare da sempre si è alimentata dal confronto/incontro con altre culture.
La nostra filastrocca ci riporta alle sere di fine maggio inizio di giugno, quando, in fondo ai vìcuri de Castelluccio che sbucavano nella Cécora e, ai margini degli oliveti che circondavano il centro abitato, all’improvviso apparivano centinaia o forse migliaia di piccole luci intermittenti che danzavano in fondo al buio.
Quelle piccole luci avevano il potere di stimolare la fantasia e i sogni di noi bambini, e subito gli correvamo incontro e iniziavamo la caccia alle zizziripenne, recitando una piccola filastrocca, che aveva lo scopo di ammaliarle e poterle catturare facilmente:
Zizziripénna càleca jò |
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Toscana | Toscana | Centro Italia |
Lucciola, lucciola, vien da me ! |
Lucciole, lucciole, dove andate? |
Quaquarella calla calla, |
Molise | ||
Lucecabella viene qua |
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Molise | ||
Lùcine calla calla, |
Una volta catturate, spesso le mettevamo dentro a una bottiglietta o un vecchio bicchiere, per osservarle da vicino, oppure per farne un faro naturale che illuminasse i sentieri bui in mezzo alle fratte nelle quali ci eravamo infilati.
Qualcuno poi le lasciava sotto il bicchiere dentro casa, e al mattino con sorpresa, al posto della zizziripenna, trovava una monetina da cinque lire.
Spesso le fantasie sulle zizziripénne e sulla magia delle loro luci si infrangevano quando, una volta catturate, ci si accorgeva che erano dei semplici insetti, ma subito si ricominciava la caccia e la filastrocca si rincorreva di fratta in fratta.
Oggi qualcuno dice che le zizziripénne non ci sono più;
in parte è vero, in quanto la zizziripénna si ciba soprattutto di lumache e, con l’uso intensivo di pesticidi per l’agricoltura che è stato fatto per molti anni, anche le lumache sono diminuite e di conseguenza è venuto a mancare l’alimento principale delle zizziripénne;
inoltre, molto probabilmente, è difficile vederle nei nostri centri abitati e nelle nostre periferie illuminate dai lampioni e dai fari delle automobili, quindi bisogna allontanarsi dalle luci, rimmergerci nel buio dei campi nelle tiepide serate maggioline e aspettare fiduciosi l’apparire magico e fantastico delle zizziripénne che tornano ogni anno ad alimentare i nostri sogni e le nostre fantasie.
P.S. nell’età moderna le lucciole hanno rappresentato e rappresentano un’altra realtà legata ai sogni e alle fantasie di molti uomini adulti; alcune si possono incontrare lungo le strade delle periferie urbane, sotto ai lampioni o, ormai raramente, accanto a falò accesi con vecchi copertoni, oppure si possono incontrare in lussuosi ambienti, circondate sempre da mosconi ronzanti, ma questa… è un’altra storia.