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Decrescita, sostenibilità ecologica ed equità sociale*

L’intervento di Paolo Cacciari, giornalista e saggista

Il movimento della decrescita è impegnato nell’organizzazione del terzo incontro internazionale che si svolgerà a settembre del 2012 a Venezia. Lo stiamo cercando di organizzare in modo tale che esso possa essere momento di incontro e di intreccio di conoscenze di cui sono portatori gli intellettuali e i ricercatori (saperi esperti) e di pratiche (saperi esperienziali) di cui sono protagonisti i numerosi comitati che si battono per contrastare le grandi quanto inutili opere, la privatizzazione di beni comuni, i progetti contro la storia e i territori delle comunità locali.

Do per acquisiti tutti gli elementi di analisi sintetizzati da Piero Bevilacqua che si è soffermato soprattutto sulle cause di tipo redistributivo dell’attuale crisi.

Ma ci sono altre cause direttamente connesse con la produzione. Tutti sanno che i fattori che vengono utilizzati nell'attività di produzione dei beni sono essenzialmente le risorse naturali (comprendendo anche quelle energetiche), il lavoro (fisico ed intellettuale) e il capitale, inteso sia come mezzi di produzione che come mezzi finanziari. Bene, negli ultimi trent’anni, le grandi imprese hanno cercato di massimizzare i profitti, minimizzando i costi del fattore natura e del fattore lavoro. I più bravi a fare questo sono state le imprese che operano in Brasile, India e Cina (BR.I.C.), grandi Paesi con immense risorse naturali, una popolazione numerosa e scarsa o debole democrazia e diritti sindacali.

Dopo la caduta del socialismo reale, il capitalismo nella sua forma neoliberista è penetrato in tutti i Paesi del mondo. Abbiamo esportato tale modello di sviluppo ovunque e ora l’iper-crescita di alcuni Paesi asiatici e latino americani li porta a vincere la competizione internazionale e a mettere in crisi quelli che una volta erano definiti i “Paesi industrializzati”: America del nord, Europa, Giappone.

La prima cosa da fare è diminuire il flusso di materie prime da trasformare in merci. Il pianeta Terra è un ecosistema chiuso, ha cioè delle risorse limitate. Non può sopportare uno sviluppo illimitato Occorre attuare una strategia globale sostenibile, in grado di assicurare risorse ed energia necessarie alla vita dei popoli, ma senza superare i limiti biofisici del nostro ecosistema.

E invece tali limiti li stiamo velocemente superando. Alcuni scienziati dell'Università della California, in un articolo recentemente pubblicato su Nature, affermano che la attuale velocità di perdita di biodiversità e di estinzione di molte specie animali terrestri e marini è tale da ritenere iniziata la sesta grande estinzione di massa della storia della nostra terra. Questa affermazione deriva da uno studio comparato con le precedenti 5 estinzioni di massa verificatesi negli ultimi 540 milioni di anni. L’ultima, avvenuta circa 65 milioni di anni fa, portò all'estinzione di circa il 76% delle specie animali allora esistenti, compresi i famosi dinosauri. Il problema è che mentre le precedenti estinzioni di massa furono dovute a fattori ambientali, la sesta estinzione di massa, non sarà causata da eventi naturali ma dall’uomo, le cui attività stanno provocando la destabilizzazione degli equilibri naturali, profondi cambiamenti climatici e perdita di biodiversità.

Nell’ottobre del 2006 il governo inglese pubblicò il Rapporto Stern sui cambiamenti del clima. Sir Nicholas Stern non è un ecologo, ma un economista che in passato ha ricoperto un ruolo importante nella Banca Mondiale. Le conclusioni del suo rapporto sono preoccupanti anche a livello economico. I cambiamenti del clima influenzeranno gli aspetti basilari della vita delle popolazioni di tutto il mondo - l' accesso all'acqua, la produzione di cibo, la salute e l'ambiente. Centinaia di milioni di persone potrebbero soffrire per la fame, la carenza d'acqua e gli allagamenti delle regioni costiere a mano a mano che il mondo si scalda.

Il Rapporto ha una semplice conclusione: i benefici di un'azione forte e immediata contro i cambiamenti climatici superano di gran lunga il costo economico del non agire.

Il Rapporto stima che se non interveniamo, i costi complessivi ed i rischi connessi con i cambiamenti climatici equivarranno ad una perdita minima del 5% del prodotto lordo globale annuo, ora e per sempre. Se si tengono in considerazione una più ampia classe di rischi e di impatti, il danno potrebbe salire al 20% del prodotto lordo e anche oltre. Al contrario, il costo di ridurre le emissioni di gas serra per evitare i peggiori impatti dei cambiamenti climatici, potrebbe essere limitato a circa l' 1% del prodotto lordo globale annuo.

Detto in altri termini ogni punto in più di PIL (il Prodotto Interno Lordo, l’indice con cui si misura la crescita economica) ci costerà due punti di PIL in meno. Come dire: gli effetti negativi della crescita economica saranno doppi rispetto agli effetti positivi.

L’attuale modello di sviluppo porta a una crisi ecologica di proporzioni enormi che nel giro di poche centinaia di anni potrebbe mettere in discussione l’esistenza stessa della specie umana e della vita sulla Terra. E che nell’immediato produce più povertà che ricchezza.

Quindi è legittima l’ipotesi che la crisi attuale non dipenda dalla poca crescita, ma dalla troppa e dissennata crescita economica.

Forse dovremmo rovesciare le cose: il lavoro e la natura non devono essere considerati un mezzo della crescita economica, ma il suo fine. Occorre rovesciare i paradigmi del capitalismo e avviare un processo di liberazione, uscire da una logica economica fondata sulla crescita dissennata delle merci e sulla logica del consumo e inventare un’economia della sufficienza, del bastevole, della fruizione, garantendo a tutti l’accessibilità al lavoro e ai servizi, riducendo l’impatto delle attività umane sulla natura e favorendo il ripristino degli equilibri ambientali.

La decrescita non è una teoria economica, è una direzione di ricerca e azione per costruire una società diversa che eviti il collasso ambientale, economico e sociale.

*sintesi non rivista dal relatore

 
 
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