|
L’attuale crisi economico-finanziaria non nasce, come ci dicono ogni giorno tv e giornali, dai mutui subprime delle famiglie e dal debito pubblico degli stati. Questi sono effetti, conseguenze della crisi, non la causa.
Le famiglie dei paesi industrializzati con redditi medio-bassi, i cui salari negli ultimi decenni si sono ridotti rispetto al costo della vita, per mantenere un livello di vita e di consumi standard, hanno fatto ricorso sempre più ai prestiti soprattutto di natura immobiliare. Gli istituti di credito, in particolare quelli americani, hanno concesso mutui a famiglie che avevano avuto forti difficoltà nel pagare i loro debiti o erano state insolventi. Ad esse sono stati concessi mutui di minima affidabilità (subprime) a un elevato tasso di interesse, che ha reso ancora più difficile la loro restituzione. La conseguenza è stata che dalla fine del 2006 si è verificata un'ascesa vertiginosa del tasso di insolvenza di mutui subprime, che ha costretto più di due dozzine di agenzie di credito USA al fallimento o alla bancarotta. Il fallimento di queste compagnie ha provocato il collasso dei prezzi delle loro azioni. Nell'aprile 2009, il Fondo Monetario Internazionale ha stimato in 4.100 miliardi di dollari USA il totale delle perdite delle banche ed altre istituzioni finanziarie a livello mondiale.
Ma le cause profonde della bolla finanziaria non stanno nell’insolvenza dei mutui subprime, trovata del capitalismo finanziario per spingere le famiglie a continuare a spendere pur non avendo soldi, bensì nel fatto che le famiglie dei ceti medi e popolari si sono impoverite. L’impoverimento è l’origine della crisi attuale.
Essa nasce da quell’insieme di fenomeni chiamato globalizzazione che dai primi anni ’80 è stata la ricetta seguita dalle grandi imprese e dai governi di centrodestra per creare un mercato del lavoro mondiale, sostenere la crescita produttiva nazionale, mantenere alti i consumi delle famiglie e non rischiare una crisi di sovrapproduzione.
Le grandi e medie imprese hanno delocalizzato le fabbriche in Paesi dove il costo della manodopera è più basso e la legislazione ambientale meno rigorosa. In questo modo i circa 960 milioni di lavoratori dei Paesi cosiddetti sviluppati, nel giro di 30 anni, sono stati messi in diretta concorrenza con oltre due miliardi di popolazione in età lavorativa disponibili in Cina, India, Brasile, Europa dell’est. Le delocalizzazioni di USA, Europa e Giappone non sono solo servite alle imprese per fare lauti profitti utilizzando salari da fame, ma anche per depotenziare le richieste operaie degli anni ‘60 e ‘70, per immettere la classe lavoratrice sindacalizzata del nord in questo immenso mercato del lavoro, costringendola alla difensiva e ad accettare condizioni di lavoro sempre peggiori.
I governi dei Paesi industrializzati, di fronte a questo nuovo scenario hanno condotto politiche neoliberiste al fine di rendere più agevoli le condizioni dei rispettivi capitalismi nazionali nel nuovo mercato del lavoro globale. Essi, a cominciare da Ronald Reagan presidente USA dal 1981 al 1989 e Margaret Thatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990, seguiti a ruota da tutti i governi anche italiani, hanno spostato il prelievo fiscale dal mondo dell’impresa al mondo del lavoro dipendente, tagliato le spese sociali, precarizzato i rapporti di lavoro, introducendo per legge e incentivando non più le assunzioni a tempo indeterminato ma forme contrattuali “a-tipiche”, per cui quando l’impresa ha bisogno di manodopera l’assume per un tempo definito e quando non è ha più bisogno non rinnova il contratto. In questo modo il lavoro umano è trasformato in merce. I lavoratori sono uno dei tanti fattori della produzione, come le materie prime o i macchinari, che vengono usati a seconda della necessità. Quando non servono stanno in magazzino.
Vi è stato, quindi, uno spostamento di ricchezza dal lavoro dipendente alle classi benestanti, che ha provocato l’impoverimento dei ceti medi e popolari, fino a giungere all’attuale situazione per cui molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza mentre poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata. A fine 2008, secondo i dati della Banca d’Italia, la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 10% della ricchezza totale mentre il 10% più ricco deteneva il 46% della ricchezza complessiva. Questo, in una situazione in cui tra il 2007 e il 2010 la ricchezza netta delle famiglie è calata del 3,2%.
Non si esce dalla crisi con manovre depressive volte a ridurre le spese sociali e a introdurre nuove tasse per i redditi medio-bassi, ma, al contrario, con politiche di riequilibrio sociale e di investimenti mirati alla sostenibilità ecologica.
Avanzo soltanto due ipotesi di intervento.
1. Reddito di cittadinanza. La crisi ha ampliato a dismisura la disoccupazione, i lavori precari, il lavoro nero con conseguenze pesantissime soprattutto per i giovani. Essi, per la prima volta, hanno la prospettiva di vivere peggio dei loro genitori. La mancanza di reddito e di sicurezza sociale scoraggia qualsiasi progetto di vita professionale, familiare, di realizzazione personale e sociale. Un’intera generazione è esclusa, messa ai margini della società. Il fatto è che vi è una crescente contraddizione tra un capitalismo che produce sempre più ricchezza, ma lo fa con sempre meno lavoro. Occorre quindi separare il reddito dal lavoro. Il reddito di cittadinanza è un aiuto materiale che lo stato dà a chi è senza lavoro, per assicurargli una sopravvivenza dignitosa e un livello minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica. La garanzia di un reddito minimo potrebbe ridare fiducia a milioni di giovani e dare loro la possibilità di sperimentare progetti di vita e di lavoro.
2. Lavori ecologici. In Italia vi è una grave questione ambientale: da una parte si verificano sempre più frequentemente fenomeni atmosferici estremi, dall’altra abbiamo il territorio più fragile d’Europa, che nei secoli scorsi è stato tenuto in equilibrio dal lavoro dei contadini. Ora quel lavoro di manutenzione del territorio non c’è più, mentre è cresciuta la cementificazione. Occorre prendersi cura del territorio bloccando la cementificazione e investendo su una nuova agricoltura e silvicoltura che potrebbero favorire coltivazioni e allevamenti ecologici di nicchia e di pregio alimentare ed economico: le attività di Slow Food indicano la strada. Più in generale occorre ridare vita ad economie nelle zone interne, appenniniche, e decongestionare le aree costiere.
*sintesi non rivista dall’autore