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Lascio la via empolitana alle mie spalle e inizio a risalire la stradina bianca che attraversa un tratto di pascolo, popolato soprattutto da mucche e cavalli allo stato brado. Man mano il pendio si accentua e prima di circondarsi di alberi e cespugli di ginestra permette, voltandosi indietro, di ammirare già un ampio tratto della valle empolitana, che dal Passo della Fortuna presso Ciciliano si allunga fino al Passo della Valicatora che porta a San Gregorio. Di fronte, maestoso, il monte Pagliaro che sembra una enorme balena distesa a guardia del fosso d’Empiglione.
Il pendio aumenta e la strada si fa più aspra mentre ripiega verso nord est e si lascia dietro ogni contatto con la valle e con la sua strada.
Neanche il tempo di sentire il fiato appesantirsi un po’ e all’improvviso si apre la veduta e appare davanti a me un enorme anfiteatro composto da alte colline ricoperte dal bosco che declina un po’ verso est e lascia intravedere i torrioni dell’antica rocca di Ciciliano. Alcuni passi ancora e più in basso si intravede tra i rami di una grande roverella la sagoma di un edificio col tetto ricoperto dei classici coppi di una volta.
E’ il Casone, antico manufatto di fine ‘700 opera dei baroni Pallavicino costruito su speroni di roccia calcarea ai margini del bosco della Selva, toponimo questo che ricomprende una estensione boschiva di oltre 300 ettari.
La strada percorsa fino a quel momento, circa 800 metri, scende in modo ripido e rapido verso il letto di un torrente stagionale ormai quasi sempre asciutto, il fosso tornino, e lo attraversa morendo in uno slargo che ospita un fontanile sovrastato da una gigantesca quercia. L’acqua della sorgente del Casone viene analizzata periodicamente e oltre ad essere pura e leggera ha la qualità ormai rara di non andare mai in secca.
L’ombra della grande quercia insieme alla freschezza indotta dalla fonte rendono questo angolino di mondo un luogo da favola, un buon viatico per chi arriva al Casone, che sta lì, a pochi metri, tra il cielo e la roccia.
I Pallavicino, nobile famiglia di origine toscana, erano proprietari del feudo di Castel Madama già da molti decenni quando intorno al 1780 decisero di costruire in quel posto ameno un elegante edificio su due piani. I racconti tradizionali parlavano di una residenza utilizzata dai nobili feudatari per le proprie battute di caccia. Le fantasie erano libere di correre, come non pensare alle possibili libertine facoltà dei nobili di una volta, nascosti agli occhi del mondo dai boschi e dal tetto di coppi rossi…
Solo di recente, grazie alle ricerche condotte negli archivi storici del comune e degli usi civici castellani, la compianta Flavia De Bellis delineò una versione diversa sull’uso originario che i Pallavicino facevano del Casone. La realtà emersa dalle antiche carte descrive l’edificio come una fattoria dedita all’allevamento dei maiali di cinta senese ed alla conseguente lavorazione delle carni per la produzione e la stagionatura dei salumi di cinta senese, rinomati ancor oggi. Elementi architettonici confermano la tesi di Flavia: la disposizione delle finestre e delle porte del piano superiore favorirebbero l’areazione dei locali destinati alla stagionatura; e la similitudine osservata confrontando le piante progettuali di edifici dell’epoca con la stessa destinazione d’uso presenti ancora oggi nel senese avvalorano l’ipotesi.
Alle prove fornite dalla tipologia edilizia si aggiungono quelle fornite dai carteggi d’archivio, dai quali emergono note di colore che vedono i Pallavicino dismettere l’attività in seguito alle continue pressanti rimostranze dei contadini locali, i cui maiali di razza autoctona grossi e rosei, venendo a contatto costantemente con i maiali di cinta senese, piccoli e neri, lasciati al pascolo brado nel bosco perché si cibassero delle ghiande, ne minacciavano a forza di accoppiamenti occasionali la grossezza della razza.
Il Casone è rimasto proprietà privata fino al 1919 quando la neonata Università Agraria di Castel Madama acquistò l’edificio e l’intero possedimento del bosco della Selva da un certo barone Fridemberg, divenendo così proprietà collettiva della comunità castellana.
Da quel momento l’edificio rimase in uso agli utenti dell’ente agrario, pastori che vi tenevano greggi ma era anche luogo di sosta e ristoro per i pastori transumanti di Guadagnolo e altre località vicine.
Con l’avvento del progresso e la fine di certi mestieri nell’ultimo quarto del secolo scorso il Casone cadde in disuso, lasciato alle incurie ed alle barbarie moderne. Il passare del tempo stava per demolirlo quando l’Università Agraria iniziò, sul finire degli anni ’90, un opera di ristrutturazione che ad oggi tra difficoltà di vario genere si appresta a completare.
Il progetto che l’ente agrario ha perseguito in questi anni prevede che il Casone torni a vivere intensamente come punto di riferimento in grado di ospitare e ristorare persone che svolgono attività culturali e sociali legate alla conoscenza ed al godimento della natura.
Per quanti come me camminando hanno lasciato la via empolitana alle spalle, il Casone e la sua fonte non sono un punto di arrivo ma un luogo di ritrovo e un punto di partenza. La strada che muore davanti alla sorgente, di fronte alla grande quercia, ai tempi antichi di Roma continuava il suo percorso inerpicandosi tra le rocce e percorreva il sottobosco fino a raggiungere altri sentieri ed altre strade. La seguo, lasciandomi alle spalle il Casone che visto dall’alto dell’ultimo anello dell’anfiteatro sembra essere il primo attore dello spettacolo in scena. Il bosco appena iniziato mi inghiotte nel groviglio delle rocce e degli arbusti, il pungitopo, il biancospino scovano un pizzico di terra dove spuntare tra il tronco di un acero e la roccia.
Solo chi non sa rimane sorpreso o sconvolto quando il sentiero si apre su una piana, una radura con qualche ciuffo di ginestra che nasconde una costruzione in opus reticolato, una cisterna romana per l’accumulo dell’acqua. Non c’è tempo per fare domande perché è tutto già chiaro quando percorrendo la radura pianeggiante si arriva al limite opposto ai piedi di un sepolcro romano del II secolo d.c. chiamato Grotta Penta, grotta dipinta, nel dialetto dei castellani che poi la fecero saltare con la dinamite alla ricerca del tesoro.
Per desiderare di riposare in questo luogo, probabilmente queste persone ci avevano anche vissuto e allora questa piccola radura pianeggiante potrebbe nascondere sotto il manto erboso i resti delle mura di un’abitazione. Chissà com’era la natura quassù a quei tempi, e com’era la vita…
Come raffigurato su mappe risalenti ai Pallavicino, il bosco della selva era attraversato da un certo numero di sentieri o strade che congiungevano villaggi o ville disseminati tra la valle Empolitana e la valle dell’Aniene. Quindi questa zona come dimostrano gli innumerevoli resti di epoca romana era intensamente vissuta e …amata.
Ma già al tempo di Re Numa, prima dell’impero che poi li distrusse, da queste parti viveva il popolo degli Equi, lo testimoniano i resti di Saxula giù a valle, ma anche le mura poligonali che regimentavano il fosso del Casone, qui su, in cima alla Pretara. Un’area quasi pianeggiante che fino alla metà del secolo scorso veniva coltivata a grano da quelle persone che non avevano terra propria e camminavano trascinati da muli o asini fino qui per arare e gettare il seme per la vita.
Certo che di sassi e di roccia ce n’è proprio tanta, proseguendo verso ovest emerge dal terra una parete spettacolare che chiamiamo “Vene”, per il fatto che la bianca roccia calcarea è attraversata da sottili strisce di silice, alternate a tagli nella roccia dai quali esplodono maestosi bacolari, enormi alberi che nel tronco assumono forme tonde e buffe, uno spettacolo nello spettacolo.
Volevano farne di tutto questo, dal Casone fin quassù, una cava di calce e breccia, invece le pareti rocciose delle Vene vengono scalate da grandi e piccini che godono di questo verde e di quest’aria.
Potrei continuare il sentiero ripiegando ad est e scendere verso Sambuci, oppure continuare verso ovest e tornare a Castel Madama. Ma preferisco riscendere verso il Casone a ritroso lasciando il sentiero e percorrendo il letto asciutto del fosso, scavato da profonde gole e interrotto da grandi massi ruzzolati giù chissà quando. Un letto vuoto in attesa dell’acqua, come una tavola imbandita in attesa dei commensali, ma probabilmente un tempo l’acqua era presente più spesso ed in grandi quantità, a giudicare dalla profondità del tracciato.
Probabilmente un tempo al tempo di Re Numa, il tempo era diverso.