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PREFAZIONE

di Giuseppe Salinetti, 2021

(...) I temi che attraversano tutta la raccolta di poesie sono collegati allo smarrimento provocato nel poeta dalla crisi di “civiltà”, dalla perdita di senso, di ordine e armonia della società contemporanea, che si intreccia alle paure e alla solitudine della vecchiaia. Questo disorientamento dà il tono alla raccolta ed è espresso fin dalla prima poesia nell’interrogativo Ched’è? ched’è? (pag.25) assunto, non a caso, come titolo del libro. Cosa sta succedendo al mondo?

Ched’è ‘stu munnu struppiu sempe atruju
che vène scirichènno a ccapu jone?.


E cosa succede a me, che ormai conduco un’esistenza solitaria e senza identità?

Vardènnome a ju specchiu ‘n-zò chi sóne
e me retrovo solu e senza appuju!.
‘Sta nebbia cinerina ma ched’è,
sempe paccuta comme ‘na macera
che m ‘arebbela da demane a sera?


Il mondo è diventato struppiu, deforme, atruju, senza un ordine, che scirica jone, in declino. Così anche il poeta si ritrova solo e senza appuju, senza punti di riferimento, senza contatti con gli altri e con la realtà, perché una nebbia paccuta, spessa come ‘na macera, un muro a secco, lo circonda, lo avvolge, m ‘arebbela. La rozza e sudata macèra di pietra, fatta a regola d’arte dai contadini castellani, suggerisce altri muri usati dai poeti come metafora dei limiti alla condizione umana: Il muro della terra di Giorgio Caproni e, ancor di più, La muraglia in Ossi di seppia di Eugenio Montale. Il muro di cinta di un orto assolato e secco, con in alto cocci aguzzi di bottiglia, che non si può aggirare né scavalcare, materializza la condizione di incomunicabilità, che tiene separati gli uomini, che li isola, che impedisce loro di raggiungere una comprensione reciproca e un buon vivere.

Moreschini si guarda intorno e vede un mondo allo sbaraglio, in confusione. Soprattutto nota il malessere, l’inquietudine popolare, i molti che soffrono e i pochi che godono. Nel corso della mia vita, dice il poeta in Me credea (pag.36), ho visto crescere le ingiustizie, invece di vederle diminuire.

Alle disuguaglianze, che c’erano, e tante, anche prima, si sono aggiunti i disastri ambientali. L’abbandono della campagna, l’incuria nella quale si lasciano le piante e la vegetazione è sotto gli occhi di tutti. Tra poco, visto anche la velocità del riscaldamento del pianeta e i conseguenti cambiamenti climatici, la terra diventerà completamente arida, non produrrà più cibo e sarà la fine dell’uomo. Da quando i vecchi contadini non sono stati sostituiti da nuovi, le vigne sono come un camposanto, scrive in Da canno è mmortu (pag.32).

Di fronte a questo presente inquietante, così diverso dagli ideali per cui ci si è battuti per una vita, forte è la delusione, e forte è la spinta a rifugiarsi nel passato. Ma quando Moreschini volge lo sguardo all’indietro, gli affiorano alla memoria ricordi drammatici, come quello della guerra, Se retignea de rusciu (pag.37), oppure ricordi agrodolci, come quello dell’innamorata morta giovanissima Te vojo recordà (pag.44), o dde ju fiju de Cicija (pag.87), o come quello della madre, delicatamente ritratta in La mare (pag.35).

Per vincere delusione, amarezza e solitudine il poeta si aggrappa a semplici cose. Pone l’orecchio alle voci della natura e riceve conforto dall’interloquire con loro. Ascolta il fruscio delle foglie ogni stagione diverso, come racconta in Le sento de parlane foja foja (pag.31); gioca con un piccolo passero, Ju passarittu (pag.45), è in amicizia con un cane, Ettore (pag.82).

Altri elementi di conforto sono i ricordi di alcune pratiche contadine. La descrizione dell’orto de Cencio ju Bastardu, J-urticeju (pag.81) non è un quadretto idillico, né semplicemente una lode dell’autoproduzione, quanto l’implicita affermazione di uno stile di vita semplice: vedere crescere le piante, sentirsi parte dei cicli della natura è motivo di soddisfazione e di serenità. Così come Ju relloju (pag.83) è un piccolo manifesto dell’ingegnosità dei contadini che, dalle cose che trovavano intorno a sé, riuscivano a creare strumenti utili a vivere meglio, in questo caso una meridiana.

Così come dà soddisfazione e serenità il modo semplice di tenere e di vivere la casa di campagna, L’atteja meja (pag.77).

Sono d’aiuto a vivere meglio il presente anche aspetti della filosofia dei contadini, come quello che si ricava da La cimata (pag.57), dove la metafora della corsa degli animali verso il traguardo è occasione per ribadire come affrontare la vita.

Insomma, Moreschini attraverso molte delle sue poesie ci suggerisce come ricevere conforto da piccole cose: porsi in ascolto e comunicazione con piante e animali, fare l’orto, costruire con le proprie mani e tenere in un certo modo le cose, procedere con lentezza, essere tenaci ma miti, pazienti e prudenti. A me fanno venire in mente le parole di Alex Langer del 1994:

“Credo che il primo e fondamentale messaggio ecologico è semplicemente quello di una vita semplice, di una vita che consumi poco, di una vita che abbia grande rispetto di tutto quello con cui abbiamo a che fare, compresi gli animali, comprese le piante, comprese le pietre, compreso il paesaggio, cioè tutto quello che ci è stato dato in prestito e che dobbiamo dare agli altri”.

Anche tornare a Castel Madama, al paese natio, fa sentire bene Moreschini. Egli lo dice in modo quasi ironico, usando quartine di ottonari, che danno un ritmo e un tono scanzonato alla composizione Me revedo da recazzu (pag.103). Leggendola mi tornano in mente le parole de La Luna e i falò di Cesare Pavese:

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

Tuttavia, ciò che sembra confortare maggiormente il poeta nei momenti di sconforto e di solitudine di questo mondo è certamente la fede in Dio, che Moreschini riafferma più volte nel corso della raccolta, ad esempio in Sciscio e resciscio (pag.46). Qui la fede è vissuta come contemplazione del creato, che dà un benessere come quello di un innamorato.

In altre poesie, come in Appijate a la Croce (pag.43), la fede è vista in modo più utilitaristico e tradizionale: confidare in Dio per ricevere risposte ai bisogni di sicurezza materiale e psicologica, secondo l’idea che la vita terrena è una valle di lacrime da percorrere affidandosi a Dio affinché aiuti a superare gli ostacoli come le malattie, i raccolti scarsi, e conceda una vita ultraterrena felice.

Vi è anche una poesia, Abbasta tanta fede solamente (pag.60), in cui l’autore usa di nuovo la metafora della cimata, questa volta per raccontare il proprio cammino di fede: difficile, lento e faticoso a volte interrotto. Per fortuna un giorno giunge inaspettato il raggio di sole della fede, che gli ha dato nuovo vigore e anche una strategia di comportamento: conquistare il Regno di Dio non è un viaggio di conoscenza, quanto un affidarsi alla fede cristiana.

Una fede che non porta a volgere lo sguardo soltanto in alto, al cielo, e ad ignorare ciò che accade sulla terra. Anzi. Nelle poesie di Moreschini non alberga un atteggiamento di accettazione della realtà così com’è, di rassegnazione alle ingiustizie sociali, alle prepotenze, all’abbandono della campagna. Al contrario, Moreschini è convinto che la funzione della poesia sia tanto ravvivare la speranza dell’al di là, quanto denunciare le storture dell’al di qua. In questo svela la sua anima popolare, il suo canto consapevole e impegnato, quanto esteticamente bello e colto. In Poeta (pag.47) si trova forse la più bella metafora della raccolta: il poeta abbèta la tribulazione, che esprime efficacemente l’idea che un poeta per essere tale deve innanzitutto avere sensibilità umana. Non c’è poesia se prima di cercare la parola da comunicare non vi è l’accogliere, l’abitare, il vivere dentro, i contenuti carichi di emozioni; se non vi è la compassione, il patire insieme, la condivisione, la partecipazione ai sentimenti altrui.

Giuseppe Salinetti

 
 
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